
Di tutte le emozioni umane la paura è sicuramente la più primitiva. Nata per proteggerci e garantire la nostra sopravvivenza, a volte sortisce l’effetto opposto, agendo anche quando non è necessaria e facendo così danni spesso irreparabili. La più esperta ad analizzarne gli effetti sulla psiche è stata di certo Shirley Jackson, scrittrice e giornalista americana che ha ottenuto successo con “L’incubo di Hill House”, uno dei più importanti romanzi gotici dell’orrore.
Il pretesto narrativo è tipico del genere: un antropologo appassionato di fenomeni paranormali, John Montague, invita alcune persone che ne sono state protagoniste a dimorare a Hill House, un edificio apparentemente infestato, per verificare eventuali attività spiritiche. Ad accettare l’invito sono la protagonista Eleanor e l’affascinante Theodora, che assieme a Montague e Luke, l’erede della dimora, iniziano il soggiorno.
L’edificio rivela ben presto delle stranezze, come porte che si chiudono da sole, accompagnate da apparizioni inspiegabili. Tra i personaggi cresce l’inquietudine e così il tormento della protagonista che, resa sensibile da un’infanzia difficile, è oggetto di interesse delle presenze nella casa, che la chiamano continuamente. La situazione degenera con l’arrivo della moglie del professore che, provando a consultare gli spiriti con una planchette, stabilisce che è Eleanor a interferire con i suoi tentativi e decide di allontanarla, portandola a impazzire e conducendola a una tragica fine.
Quest’opera elegante e velata presenta una peculiarità: il finale non fornisce alcuna spiegazione dei fenomeni soprannaturali della vicenda. Nonostante se ne possa rimanere delusi, è proprio questo che dona al libro il suo fascino, come se la stessa autrice volesse condurre un esperimento sui lettori, per vederli rimanere aggrappati alla razionalità scientifica o soccombere anch’essi al potere di Hill House.